Da cosa nasce cosa: riflessioni di game design leggendo Munari (G. Tamagni)

Febbraio 25, 2021 9:09 am Pubblicato da Lascia il tuo commento

Era un mercoledì qualunque. Stavo addentando un panino che sognavo circa dalle 10.19, ora in cui il mio stomaco generalmente prende atto che la seconda colazione è ormai finita e dobbiamo tirare fino a pranzo.

Seduta al tavolino del mio bar preferito, sfogliavo le pagine del libro “Da cosa nasce cosa”, splendida opera di Bruno Munari edita nel 1981 (non esattamente l’altro ieri). In questo libro Munari affronta con una leggerezza impareggiabile il grande tema della progettualità, dote che pare essere (ben) nascosta dentro ognuno di noi. Solo attraverso un processo metodologico chiaro e ben definito, il nostro estro creativo sarà in grado di trovare la strada giusta verso la progettualità, di qualsiasi natura essa sia.

Ok – penso – vediamo cosa riesco a tirarne fuori per l’approccio al game design.

Le pagine scorrono veloci, complici le tante immagini e i testi scritti a colonna, come se fossero poesie di un’antologia scolastica. Le tematiche disarmanti: mette a nudo il processo progettuale attaccando direttamente ai fianchi, senza tanti giri di parole.

L’impatto violentissimo con la realtà avviene tuttavia a pagina 132, quando il Sacro Graal della base metodologica si palesa in queste poche, semplici righe:

“Semplificare vuol dire risolvere il problema eliminando tutto ciò che non serve alla realizzazione delle funzioni. […] Semplificare è difficile ed esige molta creatività. Complicare è molto più facile, basta aggiungere tutto quello che ci viene in mente senza preoccuparsi se i costi vanno oltre i limiti di vendita, se ci si mette più tempo a realizzare l’oggetto, e via dicendo. Bisogna però dire che il pubblico, in genere, è più propenso a valutare il “tanto lavoro” manuale che ci vuole a realizzare una cosa complicata piuttosto che a riconoscere il “tanto lavoro” mentale che ci vuole per semplificare, dato che poi non si vede. Infatti la gente di fronte a soluzioni estremamente semplici, che magari hanno richiesto lunghi tempi di ricerche e prove, dice: ma come, è tutto qui? Ma questo lo so fare anch’ io!”
“Quando qualcuno dice
questo lo so fare anch’io
vuol dire
che lo sa Rifare
altrimenti lo avrebbe
già fatto prima.”

Capite bene che chiunque si approcci al design non può rimanere indifferente di fronte ad un’affermazione del genere. Da qui, la domanda è nata spontanea: sarà vero che il pubblico si sofferma più volentieri su un’opera (intesa in termini generali) fisicamente complicata, rispetto ad un’altra dove lo sforzo è soprattutto mentale e creativo? In che modo la complessità viene percepita?

Sarebbe bello poter dare una risposta universale alla seconda domanda, ma limitiamoci ad analizzare la prima.

L’idea che mi sono fatta dopo aver “lanciato l’amo” della discussione sul gruppo Facebook di IDG è che sì, è vero che la gente tende a valutare qualcosa di fisicamente complesso come qualcosa che ha richiesto un duro lavoro. E probabilmente lo è, non dico il contrario. Però è anche corretto ammettere che alcune volte le cose semplici sono frutto di ragionamenti che vanno ben oltre la percezione di uno sguardo superficiale.

La questione è: se dovendo ottenere un risultato che chiameremo con molta fantasia X, voi aveste la possibilità di scegliere Y, dove Y sta per una meccanica pulita, facile da imparare ma difficile da performare, magari che vi fa risparmiare sulla componentistica ponendo il vostro gioco in un contesto di game design anche vantaggioso dal punto di vista del marketing (ne riparleremo), chi ve lo fa fare di scegliere Z, dove Z sta per una meccanica difficile da capire E dunque da performare, magari con tante piccole eccezioni che vi portano ad aumentare la componentistica e dunque a far lievitare il prezzo del gioco?

Per quanto scomoda, questa è LA domanda che ogni game designer deve porsi quando parla dei propri progetti.
Ormai il panino è finito, lo stomaco ha riacquistato le sue 2-3 ore di autonomia e l’idea dell’intenso pomeriggio lavorativo fa scattare il mio olfatto alla ricerca di un buon caffè. Questo libro, nel quale riponevo tutte le speranze di poter finalmente trovare alcune risposte, si chiude beffardo lasciandomi con ancora più domande.

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Questo articolo è stato scritto da Khoril

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